Dide
La fotografia è un’ombra amica che lo sguardo offre alla luce
Su Sebastien Mazière
Le Champagne, si on a le temps de l'écouter,
fait le même bruit dans sa mousse et son
verre que la mer sur le sable.
Max Jacob
fait le même bruit dans sa mousse et son
verre que la mer sur le sable.
Max Jacob
Ho incontrato – e amato – alcune fotografie di Sebastien Mazière prima che se ne andasse bruscamente. E ho pensato tante volte, poiché avevamo alcune conoscenze in comune, di scrivergli. Non l’ho mai fatto; non ci siamo mai incontrati. Amavo il modo in cui in queste immagini ritraeva; la persona e lo spazio entravano nel suo obiettivo senza mai perdere la vita. C’era in queste sue fotografie malgrado tutte le influenze che qualche pedante critico non mancherà un giorno di elencare, un’esperienza acuta e giovane e mi colpisce ancora in esse, se le osservo, una sorta se vogliamo di incanto o di felicità inesauribile che questo fotografo sapeva attribuire al visibile. Tempo puro: magia. L’istantanea come supporto cessava di subire i codici ai quali la sottopone di solito l’assegnazione a una categoria (fotografia di moda, ritratto, paesaggio); sintesi di un punto privilegiato, alcune sue fotografie diventavano attraverso Sebastien una sorta di compimento semplice e invisibile del guardare: qualcosa che si apriva per sempre, ma senza farsi sospendere nel finito di un attimo.
In altre parole si potrebbe anche dire che Sebastien Mazière abbia cercato di mostrare come la fotografia sia per lui l’ombra che lo sguardo fa alla luce nell’ora più calda del cuore per tenergli compagnia.
Credo che la sua capacità di immaginare e di vedere chi accettava di mettersi in gioco per lui davanti all’obiettivo - e il dono che aveva di portarci a conoscere questa o quella persona - mi tocchi o mi accompagni molto più profondamente di quanto oggi io possa dire.
Sebastien sapeva far risuonare con una liricità scevra di effetto e personale legata ai primordi della fotografia le semplici possibilità che la persona racchiude e aveva cura per questo di scegliere i propri soggetti senza mai eludere con loro la necessità di muoversi in una familiarità straniera, dunque, per questo, vitale.
Chiesto aiuto a Anne, Chloë, Claire, Coline, o a qualcun’altra delle sue amiche, soprattutto non voleva in un certo senso che esse posassero.
Il punto effimero dal quale si incomincia a guardare una sua immagine si rivela spesso una riva, può essere un sentiero di sabbia,un giardino segreto, una strada o via ritirata.
Lo spazio, i luoghi sono importanti quanto le persone che li invadono, li avvicinano, li sfiorano,li cancellano. In essi persone che spesso mai in vita loro si erano messe davanti all’obiettivo hanno accettato, entrate in un vero universo, di giocare con il suo sguardo. C’è una grande pace e un’idea limpida della femminilità nei suoi scatti.
Universo certo onirico e di poesia, il mondo rivelato da Sebastien turba però chi osserva perché si è naturalmente spinti in un gioco di rinvii che ci chiedono con semplicità di meravigliarci, di amare, di indovinare.
La predilezione di Sebastien andava senza dubbio, forse senza saperlo, a una lunga tradizione artistica che ha origini lontanissime, trova nella Grecia i suoi teorici [La bellezza come il più manifesto (ekfanestaton) e quindi il più amabile (erasmiotaton)] , e si affida da sempre alla grazia di quanto è presente.
La sua concentrazione si dirigeva spontaneamente laddove la presenza era attraverso il suo brillare (éclat) sintomo di bellezza, laddove l’immaginazione costituiva un poter vedere (dunque un modo da parte di chi era ritratto di potersi scoprire e da parte di chi ritraeva di trovarsi su precipizi di dolcezza) e dove l’intelligenza e la finezza erano il tramite per una sensibilità altrimenti sconosciuta. Colpisce in quest’opera immatura e visionaria che oggi è conclusa la sua scatenata fedeltà all’éclat e al segreto.
Quando ho appreso la notizia della morte di Sebastien Mazière non l’ho considerata possibile. Ed è possibile che questo testo ne soffra. Ancora oggi non riesco ad adattarmi a questa sensazione di vertigine e di perdita che le sue immagini in me non consolano. Dietro a uno sguardo vi è una persona e spesso osservando i volti che Sebastien ha ritratto mi è capitato di pensare che dovesse essere guidato da un’intuizione simile a quella per cui Chrétien de Troyes nel Cligès dice che “l’occhio è lo specchio del cuore”.
Vorrei che fosse chiaro però che questo è un saggio che scrivo come se Sebastien fosse ancora tra noi, scritto dunque come mi sarebbe piaciuto fare in ogni caso. Vorrei riuscire a restituire qualcosa del piacere che mi da sempre guardare le sue fotografie, ma con desiderio analogo a quello che vi sarebbe se si potesse uscire insieme a bere un bicchiere e a fare due chiacchiere su cose estremamente serie e divertenti (sapremmo noi di cosa e sicuramente gli citerei Welles : “ Parlo con i Cahiers du cinéma [...]. Ma è tutta una finzione. Io sono un impostore: parlo pefino dell'"arte del cinema". Non parlerei mai ai miei amici dell'arte del cinema: preferirei essere sorpreso senza calzoni nel bel mezzo di Times Square.”). Non sarebbe inutile aver messo delle parole su quel che le immagini dicono da sole, forse, se tutto ciò suonasse come un monito a chi legge a non essere così stupido e timido da non condividere la propria gioia con qualcuno il cui lavoro o la cui persona tocchino con semplicità e senza la contraffazione dell’arte qualcosa al cuore delle poche ragioni per cui ci siamo.
Raggiungere : Sebastien sapeva farlo, dissipando nel soggetto che si decideva a rappresentare ogni distrazione, ogni paura, ogni simulazione.
La sua fotografia è dunque innanzitutto la storia di un incontro con la lontananza dell’immediato, con quanto nel soggetto è solo in apparenza intimità inafferrabile.
Ma è anche la storia di una sparizione: quella appunto della tensione con la quale nella vita di tutti i giorni ci riveliamo. Dolce doveva dunque essere la sorpresa per chi si lasciava ritrarre da lui nel trovare in ogni suo scatto l’occasione di farsi ispirazione.
Come se il vetro dell’apparire fosse infranto e tenersi sulla soglia del guardare altro non fosse che restituire vita alla vita.
Comprendere l’io, la sua melodia; indovinarne la libertà, esaltando l’istante, facendone una discesa limpida al cuore delle cose.
Senza dubbio attraverso una coscienza dell’inquadratura essenziale, sovente costruita après coup, Sebastien raggiungeva l’altro nel suo cercare.
Una scrittura del corpo dichiarata con coraggio, una perseveranza quasi bambina nel mettere a nudo lo stupore, una capacità paziente di trovare i gesti, una capacità di liberare le sue muse, di suggerire una direzione dell’io attraverso un semplice dettaglio (l’uso di descrivere tra i capelli il vento per esempio, di scoprire attraverso il vestire, di sottolineare un silenzio o un’ambizione attraverso una linea dell’aspetto). Erano queste alcune delle doti naturali di Sebastien.
Il suo modo di raccontare in un ritratto l’eterno femminino, la precarietà, la semplicità, la fuggevolezza dei suoi soggetti e delle sue immagini sono doni ai quali non possiamo rinunciare.
A essere desti davanti all’accadere delle cose: ecco a cosa le fotografie di Mazière ci invitano anche oggi. A osservarle con innocenza si può scoprire che vi è in ognuna di esse il suo girovagare, vi sono i suoi viaggi, gli incontri, vi sono le sue passioni, le sue amicizie, il suo amore e le debolezze e le magie di quel che all’improvviso ma lungamente atteso gli si consegnava illuminandolo.
Mi colpisce infine la sua capacità di vegliare – e non solo nella serie di foto che non per caso ha fatto dall’alto – , la consapevolezza con la quale decide di mostrare che esiste anche ciò che non si può rappresentare; che ciò che si riceve o si protegge e viene mostrato non è tutto, in cui in definitiva affida a ogni sua immagine il compito di raccontare che ognuna delle sue ragazze era - anche - molto di più e altro.
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